Friday, December 5, 2014

Milan Kundera, "L’immortalità"

 – e-book



Letto dal 12 novembre al 4 dicembre 2014

Il mio voto:


L'insostenibile bellezza delle piccole cose

Come diceva Mark Harris? Ci sono letture leggere. E poi c'è letteratura. Ecco una definizione adatta per questo libro di Milan Kundera, che non è mica facile, ma boy, che virtuosità, che profondità – che letteratura!

Si dice che il postmodernismo (in senso largo, ovviamente) ha riunito senza discriminazione tutte le ossessioni narrative del passato, in una democrazia testuale che avvicina senza problemi l’immagine trasfigurata e il kitsch, l’idea comuna e quella ispirata, il linguaggio figurato e quello specializzato e cosi via, incorporando gli alti e bassi non solo delle generazioni anteriori, ma anche della sua epoca, con tutta l’ibridazione e cosmopolitismo che la caratterizza. Comunque, questa generosità e apertura mentale non lo impediscono ad avere anche lui un’ossessione: di marcare il suo territorio, di non permettere la sua trasformazione in qualcos’altro, di non perdere la sua identità romanesca e confondersi con un’arte diversa. E il solo modo di difendersene è rinunciare alle regole narrative classiche:
I nuovi tempi si gettano su tutto ciò che è stato scritto per trasformarlo in film, programmi televisivi o fumetti. Poiché in un romanzo è essenziale solo quel che non si può dire altro che con il romanzo, in ogni adattamento resta solo quel che non è essenziale. Se un pazzo che oggi scrive ancora romanzi vuole salvarli, deve scriverli in modo che non si possano adattare, in altre parole, in modo che non si possano raccontare.

 Questa, secondo me, è la chiave principale di lettura di questo libro, troppo complesso per essere considerato un semplice romanzo, ma anche troppo lavorato per non esserlo. Anzi, L’immortalità è affascinante soprattutto per quello che Cioran chiamava “intervallo tra profondità vera e profondità concertata” – cioè complessità delle idee e quella della struttura. E qui forma e fondo sono in un accordo perfetto sui tutti piani – quello della finzione, della parafinzione e della metafinzione, piani che non si sviluppano circolarmente, neanche spiralmente, ma focalizzandosi e defocalizzandosi continuamente, in una sfida al lettore di scoprire la figura nel tappetto.

Primo, c’è la finzione – la storia di Agnes, Laura, Paul e le loro occhiate verso l’immortalità, che sia si sfugge sia si avvicina in un gesto, una passione, un ricordo.
Il gesto verso l'alto sembrava voler indicare a quel pezzo di terra dorata la direzione in cui prendere il volo, e i bianchi cespugli di gelsomino già iniziavano a trasformarsi in ali.


Poi, c’è la parafinzione – non ho trovato altro termine per disegnare quel territorio incerto tra realtà e irrealtà dove si trovano le biografie, i saggi, le ricostituzioni storiche, etc. e dove si potrebbe inquadrare la storia di Goethe e Bettina, in cui una giovane ragazza forza il suo cammino verso gloria eterna cancellando i confini tra realtà e finzione, cioè mutilando la verità. Ma Goethe lascia il piano della parafinzione per entrare nella finzione quando inizia il dialogo con Hemingway, tutto come Avenarius e Rubens, che diventano eroi fittivi, con deboli tratti communi ai loro modelli.
All’aria della parafinzione appartengono anche i lunghi passaggi saggistici sull’imagologia, sull’hommo sentimentalis, sull’amore et l’immortalità, ma essi si alimentano da tutti tre piani:
Chiamiamo il gesto di Bettina e di Laura il gesto del desiderio di immortalità. Bettina, che aspira alla grande immortalità, vuole dire: mi rifiuto di morire con il presente e i suoi guai, voglio superare me stessa, essere parte della storia, perché la storia è memoria eterna. Laura, anche se aspira soltanto alla piccola immortalità, vuole la stessa cosa: superare se stessa e l'infelice momento in cui vive, fare “qualcosa” perché tutti quelli che l'hanno conosciuta la ricordino.

Infine, la metafinzione non è meno facile a delimitare. Sembra chiaro che la struttura in sette parti imita la storia della creazione divina della prima luce – il gesto della donna in piscina che dà allo scrittore l’idea del personaggio Agnes ma anche del tema, fin al meritato riposo – la celebrazione con Avenarius, sempre davanti alla piscina, per il fine del libro. Tuttavia lo scrittore, chiamato anche lui, ovviamente, Milan Kundera, incontra qualche suo personaggio – Laura e Paul, in un viavai in cui non si sa più da dove a dove si varca la soglia. E questa confusione è mantenuta dalla moltitudine di ruoli che gioca il narratore: autore del libro che si sta scrivendo davanti ai nostri occhi, testimone degli eventi presentati, commentatore e saggista degli stessi eventi, personaggio episodico, figura che pretende aver scritto altri libri situati nella zona abbittata dal lettore e che fa anche delle correzioni riguardo ai titoli e al contenuto:
Avenarius tacque un momento, imbarazzato, e poi mi chiese gentilmente: “E come si intitolerà il tuo romanzo?”.

“L'insostenibile leggerezza dell'essere”.
“Ma mi pare che l'abbia già scritto qualcuno”.
“Io! Ma avevo sbagliato titolo. Quel titolo doveva appartenere solo al romanzo che sto scrivendo adesso”.

Finalmente, attraverso tutte queste cariche strade e maschere narrative, potremmo sperare almeno a una disambiguazione de fondo? Apprenderemo che cos’è l’immortalità? Una sorte di eterno ritorno come l’aveva suggerito il romanzo con titolo sbagliato nella citazione di sopra – ritorno verso quel gesto o quell’emozione esemplare che un essere non si stancherebbe mai di ripetere? Oppure il nome? Cioè – l’artista o la sua creazione? L’immagine o il senso? Chi lo sa? Come al solito, resta al lettore di scoprire il senso nascosto. Forse la vera, la sola immortalità è quella delle cose fragili, apparentemente insignificanti, ma con una forza terribile a difenderci contro la bruttezza quotidiana:
I clacson suonavano e si udivano grida di gente inviperita. In una situazione analoga Agnes un tempo aveva desiderato comprarsi una violetta, solo un piccolo fiorellino; aveva desiderato tenerlo davanti agli occhi come un'ultima traccia, appena visibile, di bellezza.


PS. Perché non parlo (sfortunatamente) il ceco, ho letto Kundera in tutte le altre lingue che conosco – inglese, francese, rumeno, e ora italiano. Trovo che l’italiano apporta un’inflessione speciale alla frase kunderiana, una certa poesia che non avevo mai sospettato dietro la voce solitamente abbastanza caustica dell’autore. Forse anche il tema si presta a questa tonalità, non lo so, ma la cadenza della frase ha avuto, durante tutta la lettura, qualcosa di magico.

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